I giovani che facevano parte del collettivo Stadera avevano provenienze diverse. Ragazze e ragazzi di diversa estrazione sociale, dagli studenti medi o universitari ai ragazzi di quartiere disoccupati o lavoratori, femministe impegnate e sballati seriali, gente che arrivava da Lotta continua o Avanguardia operaia e gente che arrivava dai festival di Re Nudo, ognuno con la propria storia alle spalle e i propri sogni davanti a sé.

Cosa ci univa?

  • Lo spazio urbano, i nostri quartieri desolati che guardavamo con occhi diversi e diventavano il nostro palcoscenico;
  • La voglia di condividere tutto, problemi e gioie, affetti e disperazione, personale e politico (la “e” era accentata);
  • Una sorta di urgenza di comunicare al mondo, con nuove parole, maschere e musiche, attraverso i muri, le piazze, le radio, le foto, i volantini, i giornali;
  • Uno stile nuovo e trasversale, disincantato e vitale dove gli slogan del passato venivano travolti e stravolti da un’ironia surreale.

Una produzione creativa che emergeva dai quartieri, che pochi riuscirono a cogliere in quegli anni, ma che lascerà tracce profonde nella comunicazione culturale e sociale degli anni seguenti.

Non so quanto di tutto questo esprimano queste immagini, ma eravamo davvero così, e queste erano le nostre facce.