15 November 2019 Admin

La storia di Mario “Zeb”

Eroina_Dossier

La mia storia.

Vengo da un quartiere popolare storico del Ticinese, il quartiere Stadera.
Il quartiere fu costruito durante l’epoca fascista, il nome che gli venne assegnato fu “Quartiere 28 ottobre”, per ricordare la marcia su Roma, ma fu ben presto sostituito dagli abitanti e poi da tutti i milanesi, con il popolare “Baia del Re”, e poi da Stadera.

Un quartiere che tra cortile, scuola e oratorio è stato il mio mondo fino al 1969, primo anno del mio approdo alle scuole superiori, all’ITIS Giorgi di viale Liguria, prima tappa di un percorso che avrebbe dovuto portarmi al mondo della meccanica, sulle orme di mio padre, operaio dell’Alfa Romeo.

Il ’69 è la data che ha segnato il mio approdo al resto del mondo: a quattordici anni, in dicembre, mi trovai catapultato fuori dal mio quartiere, e il ricordo più vivo che ho è piazza del Duomo, ai funerali delle vittime di piazza Fontana, dove ero arrivato in corteo con la scuola, per poi trovarmi da solo.

Ma il quartiere doveva restare ancora a lungo il mio riferimento.
La grande invasione dell’eroina, che avrebbe fatto di Stadera una delle piazze di spaccio principali di Milano, era ancora lontana e la solidarietà popolare, la vita di comunità, era ancora forte.
I gruppi di ragazzi si trovavano nei cortili, nelle vie, a giocare a pallone, qualche scazzo, certo non mancava, ma tutto “dentro” casa nostra, in quartiere.
Certo c’era la scuola, le assemblee e le occupazioni, le manifestazioni che spesso si concludevano con appassionate partite a biliardo, ma il gruppo degli amici era sempre quello del quartiere. Con loro si discuteva, si cazzeggiava e soprattutto si ascoltava musica.
Si perché prima della politica in quegli anni si cresceva nel mito della musica, dei Pink Floyd e dei Jefferson, del mito americano e della cultura alternativa, musica e parole, Ferlinghetti e Dylan.

Insomma in un clima di lotte operaie e studentesche, nel fermento culturale degli anni ’70, il quartiere restava il riferimento, l’ancoraggio sicuro.
Mancava ancora qualcosa perché avvenisse la saldatura tra i sogni di un ragazzo di famiglia operaia della periferia milanese e i fermenti che attraversavano Milano, il Paese e tutto il mondo.
Ma qualcosa covava sotto la cenere, e presto sarebbe partita la scintilla.

Il 1976

Il ’76 fu l’anno chiave per me come per tanti altri giovani: da fricchettone quale ero in giugno mi ero piazzato con la tenda al Parco Lambro per la “Festa del proletariato giovanile”, non era la prima volta che si andava ai raduni, tanta musica e nemmeno la preoccupazione di dover sfondare per entrare ai concerti (allora era la prassi). Nonostante il casino ho bei ricordi di quei giorni, anche delle pallose discussioni su femminismo e omosessualità e della tensione che si respirava, anche per la presenza di un servizio d’ordine che poco aveva a che fare con l’atmosfera “Woodstock”.
Era evidente il tentativo di mettere insieme la componente “politica”, fatta in gran parte da militanti e reduci dei gruppi della sinistra (Lotta continua, Avanguardia operaia, ecc.), e quella “hippie” del movimento: due anime che erano anche dentro alla gran parte di ognuno di noi.

Non finì benissimo quel Parco Lambro, almeno nelle cronache postume.
Io invece mi ero divertito e ricordo ancor oggi il concerto finale degli Area, finale per modo di dire perché si trasformò in una session che non finiva mai con tanta gente sul palco e sotto a suonare fino all’alba, anche mentre si smontavano la strumentazione e il palco.

Pochi mesi dopo, di ritorno dalle vacanze, a Stadera cambiò qualcosa: con quelli di via Barrili, gli amici d’infanzia, cominciammo a incontrarci con altri gruppi di via Pezzotti o di Chiesa Rossa: poche centinaia di metri di distanza che fino ad allora erano stati un mare.
Bastò questo: attraversare quel mare immaginario, uscire dalla via, collegare qualche filo o, come si diceva allora.

“Mettere in comune i bisogni”.

Prima ancora di esserne completamente consapevoli, nel giro di un paio di settimane, alla fine di novembre del ’76, occupammo una spazio in via Momigliano, una ex sala corse vuota da tempo.
Era nato il “Collettivo Giovanile Stadera” ed eravamo proiettati in pieno nel nascente “Movimento del ‘77”.

Il 1977

Poche settimane dopo occupammo un altro spazio, la sede “storica” di via Cermenate, e mentre anche in Chiesa Rossa e Gratosoglio altri spazi venivano occupati e sorgevano i “Collettivi giovanili”, il movimento prendeva corpo ed energia.
La questione era semplice nelle sue forme visibili ma infinitamente complessa al suo interno, perché dentro quello spazio fisico e sociale si faceva di tutto e si parlava di tutto, insieme.
Politica , femminismo, musica, omosessualità, giochi, autocoscienza, droga, manifestazioni, amore, famiglia, animazione… nessun argomento era escluso, perché il pubblico è privato e il privato è pubblico.
Ogni sabato si invadeva il centro di Milano con gigantesche manifestazioni che erano in realtà happening, si andava nei prati di Ronchetto delle Rane a giocare e suonare, o al mare o in montagna, sempre tutti insieme, migrazioni di decine e decine di giovani che con la sola presenza mettevano a soqquadro piazze e strade.

Anche la colonna sonora di quegli anni testimonia l’incredibile incrociarsi di percorsi diversi.
Il rock degli anni ’70 che aveva accompagnato le rivoluzioni giovanili precedenti era ben radicato nell’adolescenza di ciascuno di noi: Bob Dylan, Pink Floyd, Led Zeppelin, Rolling Stones, Doors, , Lou Reed, David Bowie, Jefferson Airplane… pochi i gruppi rock italiani, per me solo PFM e Banco del mutuo soccorso.
Il decennio precedente aveva cambiato il mondo e la musica era stata la massima espressione del cambiamento culturale. Impossibile farne a meno.
E poi la politica aveva portato i canti di lotta, inni e canzoni che diventavano slogan e servivano a dare coraggio nelle manifestazioni e a farci sentire vicini a popoli e tempi lontani, dal Sudamerica all’Internazionale di fine Ottocento.
E poi i cantautori, poeti che scavavano dentro le nostre anime con musiche e parole che rappresentavano perfettamente i nostri sentimenti e pensieri: De Andrè, Guccini, De Gregori, Alan Sorrenti, Claudio Rocchi, Giorgio Gaber, Claudio Lolli, Battiato e tanti altri.

Insomma c’era di tutto.
Il movimento non aveva ancora trovato la propria espressione musicale caratteristica, i miti eroici di Jimi Hendrix, Janis Joplin, Van Morrison si affiancavano senza alcun problema a quelli del Che o Ho Chi Minh e quando si tiravano fuori le chitarre partivano canzoni di lotta e CSNY, Guccini e Beatles, Area e Dylan.

A Milano se penso a un gruppo che ha accompagnato dall’inizio il movimento del ’77 mi vengono in mente gli Area: dissacranti, creativi, indefinibili e trasversali a tutti i generi sempre presenti, fin dai raduni dei primi anni ’70, politicizzati ma spiriti liberi.
Io li sentivo molto vicini e “Gioia e rivoluzione” o “Elefante bianco” sono stati probabilmente tra gli inni del movimento, e ci hanno accompagnato fino al 1979 e oltre, suggellati dalla morte di Demetrio Stratos e dal grande concerto dell’Arena del 14 giugno del ’79 (grande e tragico, perché fu organizzato per raccogliere fondi e aiutare Demetrio nella cura della sua malattia, ma lui morì il giorno prima e si trasformò in un commovente ricordo), dove molti protagonisti del movimento collaborarono all’organizzazione.

Era già bellissimo così, ma anche in questo caso qualcosa stava per cambiare: era impossibile che da tanta energia creativa non venisse fuori qualche espressione musicale “rivoluzionaria”.
Un movimento dirompente come quello del ’77 avrebbe presto trovato la “sua” musica, e la nuova ondata musicale arrivò improvvisamente a cambiare cose.

Il punk e la new wave entrarono di prepotenza con gruppi e personaggi come Tom Robinson, non a caso tra i gruppi più “militanti”, sia politicamente che nel movimento gay, i Police, protagonisti di un indimenticabile concerto al Palalido nel 1980, e poi i Clash, forse il gruppo con cui il movimento si identificò maggiormente.

In breve, come era già accaduto nel decennio precedente, dentro al movimento del ’77 e per le strade della città la nuova musica andò a definire nuove socialità, gruppi e tendenze: davanti a New Kary in via Torino i gruppetti di punk che si sparavano i Ramones o i Sex Pistols o gli X, altri che si crogiolavano nei bellissimi e disperati racconti di Television e Joy Division, i più creativi che sceglievano colonne sonore a base di Talking Heads o Devo, altri ancora trovavano in personaggi come Patti Smith nuovi poeti da affiancare agli eroi delle generazioni  precedenti, da Dylan a Bowie a Lou Reed.

Il Collettivo era in piena attività politica e creativa, si popolava dalla tarda mattinata e chiudeva a notte fonda, l’attività politica si faceva nei quartieri, in quegli anni disperatamente degradati, distribuendo il nostro giornale “Controcorrente” e con cortei rumorosi e creativi. Ne ricordo uno con un trattore in testa (una di noi era agricoltore) seguito da gente travestita da indiani metropolitani che attraversò tutte le vie del quartiere.
Si faceva intervento anche nelle scuole, in particolare nel Centro Puecher di piazzale Abbiategrasso, dove c’era un omnicomprensivo che comprendeva tre scuole: il Custodi, il Torricelli e il Salvador Allende, nonché palestre, spazi comuni, auditorium, ecc. Uno spazio che sarebbe diventato importantissimo per gli sviluppi del Collettivo. Lì ogni giorno giravano migliaia di studenti, alcuni di loro erano del nostro Collettivo, si discuteva delle cose da fare, e alle assemblee le nostre proposte erano quasi sempre vincenti.
Ci si coordinava anche a livello cittadino con altri collettivi (dal “Leoncavallo” a quelli della “Banda Bellini” del Casoretto), in particolare nella lotta contro l’eroina, che si stava portando via anche nostri amici, gente che girava nel movimento e che improvvisamente non vedevi più.
Mettemmo insieme un grande lavoro di censimento di luoghi e personaggi dello spaccio di eroina in città, quartiere per quartiere. Fu un lavoro anche molto rischioso perché alla fine venne fuori un libretto “Dossier Eroina – Nomi e indirizzi degli spacciatori di Milano e provincia”, e non mi pare ci sia altro da dire. 

Di cose da fare ce n’erano tante e anche le discussioni non mancavano. Ad esempio gli “autonomi” che frequentavano il Collettivo Stadera cercavano di trascinare gente verso l’ideologia della lotta armata e, anche se non hanno mai avuto vita facile e sono stati sempre una piccola minoranza, erano una minaccia costante, specialmente per i ragazzi più giovani e meno preparati che più facilmente si facevano trascinare verso la “lotta armata”. Nel maggio del ’77, alla manifestazione che finì con l’omicidio dell’agente Custrà, alcuni degli “autonomi” coinvolti bazzicavano a Stadera, e quando lo scoprimmo ne fummo molto colpiti.

Lo scontro con l’autonomia venne fuori anche nel settembre del ’77 a Bologna, al “Convegno nazionale contro la repressione”, un momento d’incontro che era nato per protestare contro la violenza dello stato contro il movimento (a Bologna pochi mesi prima era stato ucciso durante le cariche della polizia Francesco Lo Russo e il ministro Cossiga aveva piazzato i blindati davanti all’Università).
Di Stadera andammo a Bologna in tanti, ognuno per conto proprio, e ci disperdemmo per la città.
I miei ricordi di quei tre giorni sono piacevoli, di tante manifestazioni, spettacoli in ogni strada, casino generale, lo spettacolo in piazza di Dario Fo… insomma Bologna invasa da 100.000 persone che avevano voglia di farsi sentire, di uscire dalla gabbia.
Ricordo che feci anche un salto al Palazzetto dello sport, teatro del confronto politico sui destini futuri del movimento, da cui ovviamente non venne fuori nulla: l’ala politica, dove tanti cercavano di portare il movimento verso l’autonomia, parlavano una lingua diversa e opposta rispetto ai “creativi” . Era chiaro che non ci sarebbe stata alcuna scelta unitaria e soprattutto era noiosissimo starsene lì a sentire parole vuote mentre fuori c’era una città che ribolliva.
Il movimento sarebbe andato avanti in modo spontaneo, come era nato.

Il 1978

Nel ’78 avvenne un fatto nuovo: fummo avvicinati da alcune persone della Provincia di Milano che volevano farci una proposta da parte dell’istituzione, che era governata dal centro sinistra. Fu una sorpresa perché il Pci, in quegli anni, era acerrimo nemico del movimento, la contestazione al segretario della CGIL Lama avvenuta a Roma all’inizio del ’77 non venne mai perdonata, venivamo attaccati ogni giorno e non faceva distinzione tra il movimento dei collettivi giovanili e i gruppi della lotta armata.
Non la vedeva allo stesso modo l’assessore alla cultura del tempo, Novella Sansoni, che mise in piedi un gruppo proprio allo scopo di aprire un intervento istituzionale rivolto ai giovani.

Inutile dire che la nostra diffidenza era massima, ma decidemmo dopo infinite discussioni di accettare il dialogo e sentire cosa avevano da proporre. L’interlocutore era Romano Solbiati, un sociologo di grande capacità, che già dal primo incontro non ci girò troppo intorno e in sostanza ci disse che la Provincia era proprietaria degli spazi del Centro omnicomprensivo di piazza Abbiategrasso, che oltre alle tre scuole c’erano diversi spazi a disposizione, che avrebbero accettato proposte di intervento culturale da parte di una realtà della zona come il nostro Collettivo perché l’assessore era decisa a far crescere qualcosa a partire dal basso, dai giovani che già nei quartieri facevano cultura e controcultura ogni giorno.

Ovviamente non ci fidavamo, ma ci pareva una buona occasione: avremmo chiesto l’impossibile, le istituzioni avrebbero detto no alle nostre proposte, e noi avremmo fatto casino perché ancora una volta i bisogni dei giovani erano negati. Semplice.
Lavorammo ad un documento complesso che alla fine elencava una serie di proposte: biblioteca, emeroteca, spazi autogestiti, video, teatro, sala prove per i gruppi musicali, corsi… di tutto insomma, e anche l’assunzione di due giovani disoccupati della zona.
La risposta arrivò subito e fu spiazzante: “Ok su tutto, quando si comincia?”
Insomma accettarono tutte le proposte, e furono perfino fatti i contratti (non assunzioni, ma comunque qualcosa) ai due disoccupati scelti e proposti: io e il mio amico Fiorello.
La sfida era lanciata e non potevamo tirarci indietro.

Di fatto prendemmo possesso degli spazi all’interno del complesso scolastico omnicomprensivo, e progressivamente trasferimmo lì le attività del “Collettivo Stadera”. Il Centro culturale di Piazzale Abbiategrasso, che noi chiamammo “Il Piazzale” (che divenne anche il nome del nuovo giornale) in brevissimo fu popolato e attrezzato, la Provincia mantenne gran parte degli impegni presi e con il supporto istituzionale le iniziative si moltiplicarono.

Gli orari erano più o meno gli stessi: dopo una incruenta battaglia con l’apparato istituzionale ci appropriammo delle chiavi e con il personale della Provincia che apriva alle 8 quando entravano gli studenti e noi giovani del quartiere che chiudevamo bottega alle 3 di notte il Piazzale era sempre aperto.

Uno dei primi appuntamenti ricordo che fu una festa nel grande atrio dell’auditorium, che trasformammo in discoteca.
Discoteca era stata fino alla fine degli anni ’70 una parola proibita, ideologicamente e fisicamente. Il ballare era ridotto a trenini di fricchettoni durante i concerti e qualsiasi cosa avesse a che fare con i locali dove ballare era considerato roba “borghese” o addirittura “fascista”.
Il movimento del ’77 fece rapidamente piazza pulita anche di questo retaggio ideologico: a fianco dei tradizionali concerti auto-organizzati, cominciammo a ballare di tutto.
Era diventato un territorio liberato e anche qui gli steccati erano caduti: ricordo che si alternavano Patti Smith e “La febbre del sabato sera”, i Clash e i vecchi pezzi rock n’roll  di Celentano.

Organizzavamo anche concerti, sia nell’auditorium del Piazzale (ricordo tra gli altri Mauro Pagani e Tullio De Piscopo) che in giro per la città.
Uno dei concerti più impegnativi che organizzammo fu “MM – Milano Musica”, una due giorni che fu la prima rassegna di musica Punk e New Wave della città.

Il 1981

Credo che fosse il maggio del 1981 e fu un lavoro tosto.
Il locale scelto era il Teatro Cristallo di via Castelbarco (che poi diventerà City Square, Propaganda, C-Side, Limelight e ora è… un negozio Auchan) un locale da oltre 1000 posti gestito da Sauro e da Radio Popolare.
Il manifesto lo realizzo Maurilio prendendo spunto dalle due linee della metro che c’erano allora. Era una bella idea e tra quello, la radio e il passaparola di gente ne arrivò parecchia.
Il problema è che sia il pubblico che i gruppi che suonavano non erano proprio tranquilli, erano gli anni del punk duro e tra provocazioni, urla, sputazzi si è rischiato più volte che andasse tutto in vacca, specialmente nella serata di sabato, con alcuni punk ai quali dovemmo spiegare che chi organizzava il tutto era gente del movimento.
Alla fine andò tutto bene e non ci furono danni.
Ricordo che firmai io il contratto e tutte le scartoffie, a nome della Provincia, e solo qualche settimana dopo il concerto un dirigente dell’ente mi spiegò gentilmente che non avevo alcun titolo per farlo e che qualsiasi problema fosse capitato io ne sarei stato responsabile penalmente.
Avevo rischiato grosso.

Intanto “Il Piazzale” cresceva sia come numero di persone coinvolte che come qualità.
Nei primi anni ’80 diventammo una tra le maggiori realtà culturali di Milano.

I corsi di cinema li tenevano Maurizio Zaccaro e Bruno Bigoni, che sarebbero diventati due registi affermati, la gente cominciava a produrre video e molti dei corsisti sono rimasti nel mondo del cinema.
La fotografia vide nascere un’associazione “ImmaginArti” per organizzare mostre che portavamo in giro per i locali dei navigli. La mettemmo in piedi io e Denis Curti, oggi uno dei più affermati critici e organizzatori del mondo della fotografia italiano, insieme a un gruppo di giovani che seguivano i corsi.
Il teatro vide arrivare gente importante, ricordo uno stage di Cèsar Brie della Comuna Baires, e fiorire gruppi che facevano performances in giro per la città.
I gruppi musicali continuavano a venire alle sale prova e intanto avevamo messo in piedi una biblioteca che era sempre piena di gente…

1982/1983

Nel giro di pochi anni, nel ’82 e ’83, “Il Piazzale” arrivò ad avere oltre 6.000 iscritti, una realtà enorme per quei tempi. Forse anche troppo per la Provincia, che pian piano cominciò a restringere spazi e finanziamenti e pochi anni dopo chiuse l’esperienza.

Ma fino alla metà degli anni ’80 quella de “Il Piazzale” può essere considerata un’estensione del movimento del ’77, una vicenda del tutto anomala, direi quasi di resistenza alla subcultura che stava montando, quella della “Milano da bere”.
Io ero entusiasta del lavoro che facevo (nel frattempo all’inizio del 1980 avevo fatto un concorso ed ero stato assunto dalla Provincia) e la politica militante aveva progressivamente ceduto il passo all’animazione culturale.
Sarebbe tornata fuori di lì a pochi anni, la politica: nell’85 insieme a pochi amici fondammo i Verdi di Milano e cominciò un’altra avventura.


Ma questa è un’altra storia.